Ricordo

RICORDO DI DON ENRICO SMALDONE
IL FAVOLOSO SOGNO DI “BALÙ”
(di Gaetano Marra . Il Risorgimento Nocerino – 2.3.1967)

Alle porte del popoloso rione normanno degli Ardinghi di Angri, in uno spiazzo da tempo adibito a scarico di legname, don Enrico Smaldone – uno straordinario prete più secco ed infiammabile di uno zolfanello – iniziò la sua opera educativa. Erano gli anni amari del dopoguerra e la miseria an-che in Angri era ovunque diffusa. Il morso della privazione il giovane sacerdote l’aveva avvertito fin dall’infanzia.
Cresciuto nel rione squallido, aveva diviso in parti non sempre uguali il suo tempo tra la casa, la vecchia aula scolastica del severo palazzo della posta, un’oscura botteghella di uno scarpaio ed il vastissimo largo dell’Annunziata.
Erricuccio, per verità, all’epoca era una «matricola» autentica e non ce la metteva proprio tutta per imparare a risuolare le scarpe. Sul piazzale la sua trottola, con una incredibile punta magi-ca, costituiva il terrore dei suoi compagni di giuoco che con lui si misuravano nelle interminabili partite a «panelle allesse». Il vivace ragazzo era, altresì, buon giocatore di calcio nelle gare disputa-te per ore con la palla di pezza.
Il buon don Pietro Smaldone, compianto zio di onorata memoria, saggio maestro che ai nu-merosi scolari con tanta pazienza insegnava alfabeto, tabellone e mirabili canzoncine di Sant’Alfonso, avviò Erricuccio sulla strada del seminario. L’irrequieto ragazzo, lasciato il banchetto e la lesina, con vivida intelligenza intraprese gli studi del latino.
Lo ritroviamo, nell’indimenticato tempo della «farinella» e della miseria a cavallo, dinanzi all’antica chiesa di Santa Caterina, sentinella del vecchio rione della sua fanciullezza. Guardava con infinita tristezza tanti fanciulli sugli scalini della sua chiesa impegnati al gioco delle carte. Guardava nel suo rione frotte di ragazzi abbandonati per intere giornate tra i cumuli di lapillo vesuviano, an-cora indecorosamente troneggianti nei cortili annosi, d’indefinito colore del tempo. Ragazzi lontani dalla scuola, dalla sua chiesa, dalla stessa famiglia, impegnata in mille espedienti per assicurare l’incerto piatto quotidiano di pasta e fagioli. Ragazzi di mano lesta e bestemmia facile.
Don Enrico per loro preparò gli specchietti del richiamo. Chiamò a raccolta i suoi compagni della fanciullezza sotto la cella delle campane di Santa Caterina e con loro si trasferì prima in un’ex cantina (che il giovane Mario Carotenuto, oggi affermato artista, immediatamente provvide a rende-re accettabile con pregevoli affreschi); poi nello scarico di legname, ove gli estemporanei scouts co-struirono una decina di casette di mattoni per il «Branco» in formazione, con i soldi ricavati da una memorabile Cantata dei pastori rappresentata in Angri e S. Antonio Abate, in uno stanzone già for-no, adiacente ad un pollaio (spogliatoio della Compagnia Teatrale). Don Enrico seguiva sul mal-fermo palco, in veste di «suggeritore» i suoi compagni diabolici: spettinava il diavolo; aggiustava la «sangiorgio» di Razzullo; dava la battuta a Sarchiapone. Dava pure la sua colazione all’attore che l’aveva «perduta»; e con attori e scene tornava di notte dal Teatro paesano sul pesante traino.
Costruito il «Branco», in esso cominciarono ad affluire sempre più numerosi i «lupetti» , che impararono subito a gridare «iau» a Balù don Enrico, divenendo più buoni ed ascoltando a bocca aperta le lezioni del «vecchio Orso saggio» in veste talare.
Proprio in compagnia dei suoi giovani amici «esploratori» don Enrico un giorno s’incontrò con Padre Flanaghan nel cinema Roma di Angri, che proiettava appunto un film sull’apostolo ame-ricano dell’autogoverno dei fanciulli traviati.
Prima ancora della fine del film, lo zolfanello era già acceso dal fuoco della carità. Don En-rico non ebbe più pace. Nel suo lungo viso scavato gli occhi bruciavano. Pensava ai ragazzi, ai tanti ragazzi lontani dal suo «Branco»: e per loro pretendeva, nientemeno, che una città. Una città vera, con la scuola, le officine, la chiesa, un campo sportivo. Molto più agevole era la costruzione delle dieci casette di mattoni nello scarico di legname del rione Ardinghi! Don Enrico, però, era armato di quella fede che muove le montagne. Intanto aveva raccolto Pasquale Cirillo, un ragazzetto che non ricordava di aver mai avuto una famiglia; un «residuato» bellico che, per un pezzo di pane e for-maggio, badava agli asini nei mercati dei paesi vesuviani. Balù se lo portò a casa, in attesa di trasfe-rirsi con lui nella favolosa città dei suoi sogni.
Ebbe inizio il miracolo della carità. Il dottor Giuseppe Adinolfi offrì ai due senzatetto un pezzo di terra, posto proprio sull’ultima balza verde del Chiunzi turrito, sulla strada provinciale at-traverata dagli ultimi trams sferraglianti della Salerno-Valle di Pompei. In un luminoso giorno del Luglio 1949, «Romolo» don Enrico tracciò il solco della nuova Città dei Ragazzi sul costone dei monti Lattari, tra un mare di verde trapunto dall’oro dei tarocchi. Alla cerimonia della posa della prima pietra intervennero il Sottosegretario agli Interni, l’Arcivescovo, il Prefetto con tutte le Auto-rità della Provincia, tutto il popolo angrese incredulo e attonito. Don Enrico e Pasquale Cirillo, sul palco posto a limite della cuparella piena di siepi che delimitava i confini della Città, guardavano con occhi pieni di lagrime.
La ruota della Provvidenza prese a girare vorticosamente. Un grosso impresario napoletano, il comm. Lamaro, iniziò la costruzione della Città, su progetto dell’ing. Ales, basandosi – udite – soltanto sulla certezza di don Enrico di ottenere un «mattone» da tutti gli Italiani. Il buon imprendi-tore era stato contagiato dalla febbre che divorava il «moto perpetuo», alla ricerca affannosa dei suoi mattoni su una straordinaria vespa (il motorino offerto al sacerdote era insieme camioncino, barca, forse elicottero). Don Enrico era divenuto un bastone con gli occhiali, cucito nella lisa tonaca nera, senza cappello e con una perenne barba ribelle al rasoio. Quando non era in giro, indossava la tuta, era muratore, manovale, falegname, calzolaio. Cuoco sempre per la sua nidiata affamata. Per-ché i ragazzi erano subito diventati ventuno e si erano accampati in una baracca adiacente al cantie-re di lavoro, insieme ai germani Alfonso e Nannina Chiavazzo, che con tanti sacrifici badava alle pulizie affrontando non lievi disagi e «prendendosela per amore di Dio».
Gli amici di don Enrico si erano trasformati in Compagnia Stabile La Lucciola e giravano per i polverosi teatrini della zona vesuviana, raccogliendo qualche consenso, pochi fischi e discrete sommette per i ragazzi di Balù. Certamente contribuirono a portare lontano il nome della «Città dei Ragazzi» in costruzione. Don Enrico li accompagnava e negli intervalli dello spettacolo parlava al pubblico del suo favoloso sogno. Col ricavato della solita Cantata dei Pastori, fu comprato uno dei primissimi televisori in vendita, che il «Sindaco» della Città ritirò, ringraziando, a nome dei suoi compagni, gli amici dell’Orso saggio.
Con l’arrivo dei mattoni da ogni parte, perfino dall’America lontana (i connazionali avevano creato Comitati per la raccolta delle offerte, per merito precipuo dell’angrese prof. Federico Russo) cresceva di giorno in giorno la città a divenire in pochi anni un grosso edificio a tre piani, largo m. 15 e lungo m. 45, con i più moderni e funzionali servizi. Tre grandi padiglioni, con officine mecca-niche dotate delle più progredite macchine ed un’avviata falegnameria, completarono la Città. Per-fino il sogno del campo sportivo era divenuto palpitante realtà: un verde rettangolo di giuoco con le porte a norma di regolamento.
Nella Città la Provvidenza aveva, intanto, mandato un angelo buono: la dott.ssa Agnese A-dinolfi, di distinta famiglia angrese, lasciando agi e comodità familiari, s’era trasferita al fianco dei ragazzi di don Enrico. La mammina, oltre a badare a tutto con infinito amore, aveva pure trasferite alla Città le non poche ricchezze del suo asse patrimoniale. Una virata decisiva per le sorti dell’istituzione.
I ragazzi, autogovernati sotto l’occhio vigile dell’esperto Balù, ben presto divennero anche autosufficienti. Oggi i lavori di precisione delle officine meccaniche e della falegnameria della Città sono sempre più largamente richiesti ed apprezzati.
Don Enrico raggiunse ben presto il suo traguardo educativo: abolì immediatamente i retrivi, superatissimi schemi tradizionali, in voga ancora nei normali collegi; non prese nemmeno in consi-derazione l’uso della tradizionale «divisa»; favorì la più genuina crescita dei suoi ragazzi. L’autogoverno saggiamente applicato, ha dato i suoi frutti: ragazzi prelevati dalla strada, di autenti-ca estrazione popolare, rimasti sempre «veri», sono diventati uomini. La Città di anno in anno rido-na alla società qualificati operai specializzati, tecnici di provata capacità, professionisti. Particolare menzione per due «cittadini» illustri: Pasquale Lamberti, a Pasqua prossima novello sacerdote, chiamato a continuare in Città l’opera del maestro; Armandino Olivieri – già sindaco ripetutamente rieletto a seguito delle annuali votazioni, dopo impegnati comizi – tornitore meccanico, qualificatis-simo istruttore delle officine della Città e valente saxofonista (don Enrico aveva pure creato un ap-prezzato Complesso Bandistico, rinomato in tutta la regione).
I ragazzi crescono, imparano, si amministrano col frutto del loro lavoro. Ė questo il «monu-mento» di don Enrico Smaldone.
Dopo tante fatiche, tanti stenti e privazioni inenarrabili, poco più che cinquantenne, all’alba del tristissimo 29 Gennaio 1967, don Enrico è andato a cogliere il suo premio eterno nel Cielo dei Giusti. Poco prima di morire, aveva chiamato intorno i suoi «cittadini» per affidare loro l’ultimo messaggio: «Vi benedico tutti. Vogliatevi bene!».
La meravigliosa macchina del bene s’era inceppata per sempre; il grande cuore, l’immenso cuore più grande del mondo, aveva cessato di battere. Spento per sempre lo sguardo «simpatia»; le povere ossa rinsecchite nella lisa tonaca nera sul misero lettuccio, nella Cappella della sua favolosa Città, ai piedi dell’altare che i suoi ragazzi hanno scavato nel legno.
Don Enrico aveva nascosto a tutti il suo improvviso male ribelle. La sconcertante notizia della sua morte coglieva di sorpresa e paralizzava l’intero paese. Trentamila persone iniziarono un pellegrinaggio d’amore per baciare l’ultima volta la mano scarna del prete santo; per affidare ancora una volta, n un soffio, l’ultima raccomandazione a quell’orecchio senza vita. Da buon vecchio filo-drammatico, don Enrico aveva tentato di uscire dalla «comune» in punta di piedi. Ma chi avrebbe potuto permetterlo? Una volta, è vero, gli era pure riuscito di nascondere quasi a tutti la sua nomina a Vicario Generale della Diocesi di Nocera dei Pagani.
Sempre gioviale, quando premettevano al suo nome il mons. si «arrabbiava»: strappava in un attimo la busta incriminata. Era nato per la semplicità e con la semplicità riusciva a fare tutte le non semplici cose della sua esistenza movimentata.
Il pio transito divenne subito l’apoteosi di don Enrico. Il silenzio, il grande, impressionante silenzio avvolse Angri per diverse ore. Solamente i rintocchi delle sue campane della sua Santa Ca-terina rincorrevano i rintocchi delle campane dell’Annunziata, del bel San Giovanni… sovrappo-nendosi al lamento della sirena dello stabilimento delle Manifatture Cotoniere Meridionali, che sa-lutava per l’ultima volta il fratello degli operai tessili (nella notte di Natale del 1952 avevano vinto il premio «Stella della bontà» per la meritoria rinunzia – un giorno ogni mese – della mensa azien-dale, a favore della Città dei Ragazzi). Sulla lagrimata bara, portata a spalla dai suoi ragazzi in pian-to, circondata dai suoi «esploratori» vecchi e nuovi, una pioggia di petali…
Oggi la luce del grande spirito di don Enrico sfavilla dai muri della sua Città, ai piedi di Corsara appollaiata nel mare verde degli aranceti dei Lattari. Il prete straordinario che, partendo da zero, ha saputo operare un autentico miracolo, levando al cielo, nel nome di Dio, un’Opera che vale oltre un miliardo di lire, vive nel cuore di un’intera popolazione che si appresta a celebrarne nel tri-gesimo del pio transito, l’apoteosi più fulgida.
Sono personalmente convinto che dal suo Cielo don Enrico (il Monsignore che non ha mai voluto si sapesse del suo titolo) si «arrabbierà» non poco per questa celebrazione.
Ormai lo sapete: don Enrico, semplice e gioviale, non amava il chiasso del mondo. Amava del mondo il suo prossimo, più che se stesso.
Così sono fatti i santi.
Gaetano Marra

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